Sopresa, l’affresco era in dispensa
Di seguito, l’articolo originale del Messaggero:
Nella residenza dei frati a San Domenico
Perugia – La costruzione è quella prospiciente la Basilica perugina di San Domenico, laddove abitualmente risiedono i padri domenicani che un tempo possedevano e gestivano l’intero complesso conventuale. Dall’ingresso imponente che si trova in fondo a via del Castellano, superato un breve corridoio, si arriva velocemente all’interno di una stanza chiusa.
Uno spazio chiuso e senza finestre, oggi adibita a ripostiglio, confinante con le cucine. C’è un vago e normale odore di stantio. Le pareti sono occupate da ripostigli e mobili dove si conservano cibo e bevande. Ma basta alzare gli occhi per restare come abbagliati. Sulle volte della stanza c’è un grandioso affresco, ancora discretamente conservato, che commemora la Grande Guerra e in particolare – come si evince dagli stendardi dipinti su una delle lunette – le gesta dei combattenti del 129° reggimento di Fanteria Perugia, del 51° reggimento di Fanteria Cacciatori delle Alpi e del 16° reggimento Brigata Tevere.
Eccolo il memoriale ai caduti che Perugia non ha mai avuto: nascosto nelle viscere della più maestosa delle basiliche cittadine e sconosciuto ai più. Lo abbiamo potuto vedere (e in fondo scoprire) grazie alla cortesia e lungimiranza di padre Alberto Viganò, studioso raffinato e colto, che da tempo si chiedeva se queste decorazioni di soggetto militare, per definizione estranee alla sensibilità della famiglia domenicana e forse per questo a lungo sottovalutate, non meritassero una qualche attenzione storica (per capirne l’origine, il significato e possibilmente l’autore) e un minimo di tutela (visto il rischio incipiente di degrado).
Ѐ stato un privilegio concesso ad un piccolo gruppo composto da Vittorio Sgarbi, subito dimostratosi entusiasta della visione, da Giovanna Giubbini, direttore dell’Archivio di Stato, e dal sottoscritto. Il Convento di San Domenico, dove oggi si trovano il Museo Archeologico e l’Archivio di Stato, è stato una caserma nei decenni compresi tra l’unità d’Italia e la fine del fascismo. Questi dipinti sono dunque nati in un ambiente strettamente militare. E sebbene databili, per ragioni stilistiche, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, dunque in pieno mussolinismo, non sono connotati come ci si aspetterebbe da richiami simbolici al fascismo (c’è invece raffigurata, su un’altra delle lunette, la bandiera militare sabauda, a conferma di una fedeltà alla dinastia considerata dall’esercito preminente se non esclusiva). Dalla loro ubicazione in un spazio angusto, riservato e senza luce si può ipotizzare che si trattasse di una cappella-sacrario. La scritta che scorre sulle quattro pareti, e che si legge quasi per intero, conferma l’ipotesi di un milite ignoto, “degno figlio di una civiltà millenaria” ed eroico combattente di molte battaglie, deposto nella cripta. Gli affreschi celebrano la storia dei tre reggimenti qui di stanza e i suoi caduti: dalle battaglie risorgimentali (Custoza, Laveno) a quelle sostenute durante la Grande Guerra sui diversi fronti (Col di Lana, Marmolada, Vidor, Chemin des Dames).
L’affresco più integro colpisce per la sua bellezza, di vaga ispirazione realista-sovietica e post-futurista. Presenta un gruppo di fanti-arditi all’assalto: figure slanciate, irregolari ma non disarmoniche, che esprimono una potenza paradossalmente non distruttiva. Quello più rovinato presenta un gruppo ancora più plastico e monumentale: sotto le divise dei combattenti, che sembrano formare un solo uomo, si intravede il rosso delle camicie garibaldine tradizionalmente indossate dai Cacciatori delle Alpi. Ma chi li ha realizzati, vista la fattura preziosa e per nulla dilettantesca? Sgarbi, che considera “entusiasmante” la composizione dell’affresco principale con i soldati che danno l’assalto, ieri sul “Corriere della Sera-Sette” ne ha tentato un’attribuzione, facendo il nome di Romano Dazzi (il figlio di Arturo): autore in effetti di molte scene di combattimento e di soggetti militari, ma ispirati soprattutto all’epopea coloniale italiana. Una proposta che lo stesso critico ferrarese ha presentato come un azzardo e una sfida: l’inizio della ricerca del vero autore di questi dipinti. Massimo Duranti, col quale ho parlato, esclude che un artista umbro-perugino, tra quelli attivi tra gli anni Venti-Trenta, possa essere l’autore di una simile opera. Di Perugia era Lemmo Rossi Scotti, pittore amante dei temi guerreschi, ma il suo orizzonte era ottocentesco-risorgimentale e comunque morì nel 1927.
Forse l’autore è stato un artista-soldato temporaneamente di stanza in Umbria. Forse si tratta di una commessa militare a un artista venuto appositamente a realizzare l’opera: Marco Pizzo, direttore del Museo del Risorgimento di Roma, mi ha suggerito i nomi di alcuni pittori d’Accademia quali Savinio Labò, Giulio Marchetti o Augusto Colombo, che si sono cimentati su simili soggetti celebrativi. Di mio aggiungo quelli di Antonio Giuseppe Santagata e Armando Marchegiani. Ma tra i pittori di guerra sinora compulsati, tra cataloghi e raccolte fotografiche, non se ne è trovato nessuno il cui nome possa risultare realmente attendibile. La soluzione, senza impelagarsi nel gioco delle attribuzioni fatte a casaccio, si trova probabilmente negli archivi dell’Esercito, sui quali sta lavorando Giovanna Giubbini. O forse arriverà da chi, vedendo le foto qui pubblicate in esclusiva, saprà riconoscerne la mano e lo stile. Resta da capire, ora che di questi affreschi si è avuta notizia, cosa si intende farne, visto il loro valore intrinseco artistico e storico-documentario. Si muoveranno, come si spera, il Comune e la Sovrintendenza? Si tratta di un bene cittadino da salvare e conoscere, tanto più che nel 2018 cadranno i cento anni dalla fine della Grande Guerra e dunque non potrebbe esserci scadenza migliore, altamente simbolica, per restituire a Perugia quest’altro pezzetto della sua memoria spesso offuscata.
Fonte: il Messaggero Umbria