L’archeologia della Prima guerra mondiale in Slovenia
di Željko Cimprič, responsabile del Museo di Caporetto
Nell’analisi dell’ ‘archeologia della Grande Guerra’ possono considerarsi una pietra miliare gli atti del convegno internazionale svoltosi nel Centro di documentazione di Luserna una decina di anni fa. Vi presero parte, grazie all’iniziativa promossa dalla Soprintendenza per i Beni librari, archivistici e archeologici della Provincia Autonoma di Trento, studiosi italiani, sloveni, austriaci, inglesi, francesci e belgi. In quella occasione, presentai una breve relazione per informare sulla situazione del patrimonio della Prima guerra mondiale presente nel territorio sloveno, affermando che la maggior parte dei fatti che riguardano questo patrimonio non ha molto in comune con l’archeologia nel vero senso del termine. In ogni caso, ieri come oggi, non voglio usare le virgolette nel titolo, perché sono convinto che le userà il lettore stesso trovando il termine «archeologia».
Dopo il secondo conflitto mondiale la sorte riservata al patrimonio della Grande Guerra del fronte isontino sul territorio italiano fu diversa da quella che ebbe sul territorio jugoslavo ossia sloveno.
Prima del secondo conflitto, cioè al tempo della dominazione italiana, la situazione era uguale sia nel territorio sloveno che in quello italiano. La gente locale usava i resti e gli attrezzi come materiale edile e come materia prima da vendere per un’ulteriore rielaborazione. A Caporetto si protrasse fino ai primi anni sessanta del Novecento l’acquisto di questi oggetti di metallo. I vincitori consideravano spesso questo patrimonio come trofeo di guerra, i vinti nascondevano le armi per usarle nello scontro successivo come aderenti al movimento partigiano.
A Caporetto la commemorazione ufficiale del fronte isontino raggiunse il culmine alla vigilia della Seconda guerra mondiale con la costruzione sul Gradič dell’ossario dei Caduti inaugurato nel settembre 1938 da Benito Mussolini dove furono tumulati i resti mortali di 7014 combattenti italiani, noti ed ignoti, caduti durante la Grande Guerra e prelevati dai vicini cimiteri militari.
Dopo la fine del Secondo conflitto mondiale, invece, lo stesso ricordo precipitò al suo livello piú basso, perché nella Jugoslavia di allora fu del tutto rimosso sia nell’opinione pubblica sia nella classe politica il ricordo di questo capitolo della storia. In Slovenia non esiste una strada intitolata con un nome che abbia attinenza con questi eventi.
Negli anni Novanta del Novecento, tuttavia, si verificarono dei cambiamenti che non erano, in relazione con l’indipendenza della Slovenia. Il Museo di Caporetto, costituito nel 1990, fu una delle prime rondini che annunciò il risveglio dell’interesse: infatti dopo tre anni di attività raggiunse la cifra record di 86.000 visitatori in prevalenza sloveni. Si risvegliarono pure gli scrittori e gli editori, si diffusero il collezionismo, i dibattiti tematici su internet, il commercio dei reperti e negli ultimi anni perfino i mercati di oggettistica militare e bellica. Nell’Alto Isonzo oggi perfino i ragazzini creano collezioni proprie e sognano di poter avere un metal-detector in regalo dal papà. Fino a poco tempo fa il nome di Caporetto non diceva niente alla gran parte degli Sloveni, poi improvvisamente il termine – fronte isontino – divenne sinonimo di un capitolo storico prima dimenticato e poi riscoperto, di eventi imponenti, terribili, misteriosi, inquietanti…
Questa situazione assolutamente nuova e la valorizzazione di questo patrimonio non portarono alcun cambiamento a livello legislativo e istituzionale, a cui è affidato il patrimonio culturale. La legge che la riguarda, approvata sempre negli anni Novanta, tratta il patrimonio della Prima guerra mondiale esattamente come il patrimonio delle altre epoche storiche. I reperti trovati in superficie, sottoterra oppure in acqua sono proprietà dello stato. Chi li trova è tenuto a provvedere che restino intatti in loco e ad avvisare il competente organo istituzionale.
Nei terreni edificabili sono a carico degli investitori le prescritte ricerche archeologiche assicurative compiute dall’Istituto autorizzato. Naturalmente questa norma è valida per le zone archeologiche già prima definite e tutelate. Occore il permesso del ministro per le ricerche archeologiche, gli scavi e l’uso del metal-detector ed altra simile attrezzatura. In base al permesso si definiscono gli esecutori, si delimitano le zone, si fissano le condizioni e i modi di ricerca come pure i divieti e i limiti imposti al proprietario del terreno e ad altri per quanto riguarda il tempo di esecuzione. Occorre il permesso dell’istituto competente per qualsiasi ricerca che rappresenti un’intrusione nel patrimonio o in un monumento. Probabilmente non ci si sorprende che la vita abbia seguito il suo corso al di là delle pesanti restritive norme di legge.
I fatti, purtroppo, provano l’assoluta inesistenza di un’efficiente tutela del patrimonio storico e il retrocedere del paesaggio culturale davanti al bosco ed al terreno incolto. I primi attori della trasformazione non sono più i contadini, bensí i costruttori delle vie di comunicazione, gli operai del bulldozer, i gestori delle piste sciistiche coloro che commerciano con i reperti delle trincee. Non si vede né controllo né la presenza di professionisti competenti in tutti questi interventi abusivi. In passato è accaduto che sia stata acquistata una trincea italiana e trasformata in un metro cubo di pietra scistosa (esentasse) poi caricata su una paletta da trasporto. La località era la linea d’armata che corre sulla cresta di confine del Kolovrat, una zona interessata successivamente dai progetti dell’Unione Europea INTERREG Slovenia – Italia. La stessa sorte è accaduta al posto di guardia confinaria dismesso dell’esercito jugoslavo sul passo Zagradan e, a valle, ai muri di sostegno sopra una vecchia strada austriaca ai piedi del Matajur. Non esiste discriminazione e ne è vittima la proprietà pubblica indipendentemente dal periodo e dall’origine.
C’è da dire, comunque, che nel 2008 la legge sulla tutela del patrimonio culturale è stata cambiata e disciplinata con regolamenti di attuazione che fissano norme molto più precise e restrittive nella funzione della protezione del patrimonio. Le ultime disposizioni sono del 2014 e definiscono le ricerche nei siti archeologici e l’uso delle tecnologie (ad es. metal detectors). La vita però, come abbiamo già detto, ha il suo corso e, attualmente, le forze di polizia (deputate dalla normativa a svolgere funzioni di controllo e di tutela del patrimonio archeologico della Grande Guerra) si trovano impossibilitate a svolgere pienamente il proprio ruolo poichè sono impegnate in altri lavori.
Un’ombra che non offusca le tante luci: il patrimonio della Prima guerra mondiale viene sempre più apprezzato grazie al ruolo svolto dal museo di Caporetto e dalla Fondazione ‘Le vie della pace nell’Alto Isonzo’ che hanno tentato negli anni scorsi di richiamare l’attenzione sulle conseguenze di questi fatti particolari, anche se, trattandosi di enti privi di capacità giuridica, non hanno potuto fare altro che denunciare i fatti a mezzo stampa e presso gli organi competenti.
Il cammino della Fondazione è pluriennale: inizialmente ha riunito «sotto il tetto comune» le iniziative locali per costituire nell’Alto Isonzo musei all’aperto, e, successivamente ha preso contatti con l’Istituto per la tutela del patrimonio culturale. La Fondazione partì dalla convinzione che poteva avere un esito positivo la sistemazione di singole, piccole e facilmente accessibili posizioni militari, almeno nel quadro degli standard minimi e in collaborazione con l’istituto competente. Per questa ragione, in questi anni, la Fondazione ha cercato di valorizzare il patrimonio del fronte isontino nell’ambito della comunità e soprattutto tra gli abitanti di queste zone, i quali sempre di più si rendono conto che la conservazione di questo bene porta – a lunga scadenza – una maggiore utilità che non le pietre che essi asportano dalle trincee per lastricare il proprio cortile. Tale linea di condotta rende possibile catalogare certi territori come aree di attività turistica anche se per alcuni ciò significa ‘sacrificare’ le singole zone.
Ma non è finita qui. Passo dopo passo, anno dopo anno, la Fondazione è riuscita a collegare i siti più importanti dell’ex-fronte dell’Isonzo con il “Sentiero della pace dalle Alpi all’Adriatico” e se un tempo queste vie erano percorsi bellici, ora sono a tutti gli effetti vie di pace che uniscono territori, persone, patrimoni culturali. Data la loro valenza, si è intrapreso il cammino per raggiungere un altro ambizioso obiettivo: sono in corso le procedure per iscrivere il ‘Sentiero della pace dalle Alpi all’Adriatico’ nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO al fine di trasmetterlo alle generazioni future.