“La storia di mio padre Francesco” raccontata in un taccuino da Alceste Maria Mariani
Alceste Maria Mariani (25 maggio 1932 – 27 luglio 2007) in un piccolo taccuino moleskine ha raccontato la storia del padre Francesco, nato a Spoleto il 3 ottobre 1892 e morto a 82 anni il primo aprile 1973. Diciannove paginette in cui descrive l’infanzia del padre Francesco – desideroso di studiare ma costretto a lavorare nei campi – e la sua esperienza durante la Prima guerra mondiale.
Prefezione Quello che stò per scrivere è un fatto vecchio di tanti tanti anni fa (circa 100) così mi raccontava mio padre nelle sere d’inverno seduto sotto il camino con il fuoco acceso e con la pipa in mano. Io lo ascoltavo interessata, attenta, a quelle cose a me sconosciute, di quel mondo di cose fatte di niente, molto diverso da come la vivevo io. Mio Padre Francesco, Nato il 3 ottobre 1892 da Giovanni Mariani e Maria Farinelli, genitori contadini, il più grande di altri due fratelli, Ponziano 1900 e Augusto 1902 e tre sorelle Marina 1894, Domenica detta Mimmetta (perché piccola e bassa) 1897 e Rosa 1905 la più piccola. Io (raccontava papà) essendo il più grande ero quello doveva aiutare i genitori nel lavoro dei campi e degli animali, a me sarebbe tanto piaciuto poter andare a scuola magari poter fare la quinta elementare (diceva con rimpianto) ma purtroppo dai “padroni” dei poteri allora non era permesso perché dovevano lavorare la terra anche se erano in tenera età, i figli dei coloni. Ma per la mia volontà di studiare e con l’aiuto dei miei genitori a nove anni potei andare a frequentare la prima elementare, mi alzavo la mattina molto resto, aiutavo papà a governare gli animali, tiravo su l’acqua del pozzo per abbeverarli che papà più tardi avrebbe fatto, prima di andare ha lavorare i campi. Dio volle che riuscii a finire la prima elementare senza essere scoperto dal “Tiranno”. Per iniziare la seconda classe mamma mi cucì una borsetta con la tela di sacco per mettere il libro e un quaderno, a me sembrava di essere un signore poiché nessuno dei miei compagni la possedeva. Quei pochi mesi di seconda classe passarono senza essere scoperto, ma una mattina mentre mi recavo a scuola (era quasi finito l’anno scolastico) incontrai il padrone che furioso mi “ordinò” di tornare a casa a lavorare (era il tempo della mietitura del grano). Io attaccai la mia borsetta in un ramo di olmo e lì restò per tanti mesi, e lì finì la mia speranza di continuare la scuola, fui promosso ma non potei più seguitare. Arrivò l’età di leva militare ma scoppiò la prima guerra mondiale e mi mandarono in prima linea, lì passai i più brutti mesi della mia vita tra disagi indescrivibili, fame, freddo, paure; per lavarci mettevamo la neve nella gavetta per farla struggere di giorno al sole, (poiché si combatteva maggiormente di notte), nei momenti di pausa ci lavevamo il viso. Dopo circa tre mesi, arrivò la notizia che ci avrebbero mandato altri soldati a darci il cambio; non potete immaginare la contentezza di noi, ridotti come eravamo laceri, affamati, stanchi, sporchi. Arrivarono una notte un reggimento di bersaglieri e noi della fanteria potemmo partire, camminammo tutta la notte, sul far del giorno arrivammo nelle retrovie, ma non facemmo in tempo a posare gli zaini a terra che arrivò l’ordine di ritornare in prima linea, perché partiti noi, gli austriaci sferrarono una battaglia alla baionetta corpo a corpo perché si erano accorti che erano arrivati i bersaglieri (che loro non potevano vedere) e poveretti furono quasi tutti uccisi. Ritornammo al fronte, nel combattimento fui ferito, ma non gravemente e mi mandarono in un ospedale da campo; non mi parve vero, potevo riposare, dormire dopo tanto tempo, mangiare un piatto caldo. Una mattina prestissimo (prima di giorno) mentre dormivo mi sentii una mano sulla fronte e svegliandomi, rimasi senza fiato, vedendo ritto vicino a me “Il Re” Pippetto che mi strinse la mano chiedendomi come stavo; finita la visita ripartì subito augurandoci buona fortuna. Rimasi ancora quindici giorni e ebbi la fortuna di conoscere un tenente di Firenze che mi volle come suo attentende, così non tornai più a combattere ma ebbi l’incarico di accudire lui in tutti i suoi bisogni. Eravamo nelle retrovie e per me fu un periodo di cuccagna, lavavo i suoi indumenti, gli pulivo la cuccia (branda), la divisa, mi voleva bene come un fratello, ma un bel giorno mi chiamò per informarmi che andava in licenza premio e io dovevo in quei giorni della sua assenza rientrare al mio reggimento. Manco a dirlo appena rientrato mi consegnarono una “carritta” con un mulo, mi spiegarono che notte tempo dovevo fare la spola dal retrovia in prima linea per portare vitto e munizioni dove si combatteva, dovevo passare in una mulattiera di alta montagna dove la “carritta” entrava giusta, bastava spostarsi di un palmo per precipitare a fondo valle. In un viaggio di questi mi consegnarono tra le altre cose mezza forma di parmigiano e un barile (continua il racconto). Io avendo una fame arretrata da giorni incominciai con la punta della baionetta a staccare qualche scaia di parmigiano, poi curioso di sapere che conteneva il barile aprii il tappo e con mia grande sorpresa scoprii che era rum (solo per gli ufficiali) così di notte e con il freddo mentre il mulo camminava mangiavo una scaia di parmigiano e un sorso di rum, a un certo punto un po’ per il rum, mi addormentai, sul far del giorno svegliandomi mi ritrovai al campo base, mi vennero le lacrime agli occhi pensando al mulo che senza guida su quella mulattiera pericolosa mi riportò sano e salvo, lo baciai tante volte. Dio volle che il tenente ritornò e io ripresi il mio posto con lui. Passarono due mesi e una mattina il tenente mi chiamò facendomi una confidenza, pregandomi di essere muto come un pesce perché, mi spiegò, che se veniva scoperto lo avrebbero fucilato disse: “sono andato a casa per sposarmi”, mi pregò di andare con il suo carrozzino alla stazione di Padova a prendere la moglie che sarebbe arrivata in giornata, indossando una sciarpa rossa come riconoscimento. Appena il treno si fermò scese una ragazza bellissima, sembrava un angelo, mi avvicinai per salutarla ma mi mancò il fiato, fu lei che mi ringraziò per la complicità. La accompagnai in una locanda che il tenente mi aveva insegnato sulla strada che da Padova portava verso il fronte, non tanto lontano dalla retrovia, così lui poteva raggiungere la sera per poi essere presente la mattina al reggimento. Dopo una quindicina di giorni venne l’ordine di lasciare le postazioni e ritirarsi (Caporetto) come uno poteva; la signora ripartì e noi andammo sparpagliati come percore cercando di portarci in salvo la pelle, dopo 2 giorni di cammino, stanchi e affamati, arrivammo in una altura e vedemmo un casolare mezzo diroccato, ci avvicinammo sperando di trovare qualche abitante che ci aiutasse, trovammo solo desolazione, gli occupanti avevano abbandonato tutto ed erano scappati, lasciando nella stalla una mucca che muggiva per la fame; non ci parve vero; presi la gavetta er rimediare un po’ di latte, cominciai a mungerla ma non usciva latte ma tutta roba gialla poiché da giorni non era stata munta e quindi il latte era ristagnato, ma non ci curammo, lo bevemmo uguale anche se dopo poco stemmo male. Continuammo a camminare e dopo tanta strada e tanti stendi [= stenti] arrivammo in ospedaletto da campo dove lasciai il tenente (che avevo portato fin lì sulle spalle). Mi rinserirono nel battaglione dove rimasi fino alla fine della guerra perdendo di vista il tenente che mi aveva salvato la vita. Ritornato a casa scrissi all’anagrafe di Firenze per sapere se si era salvato ma non ho avuto mai risposta. A guerra finita ebbi insieme al foglio di congedo illimitato una croce di guerra. Negli anni settanta mi dettero un attesato di benemerito con nomina di “Cavagliere di Vittorio Veneto”, con medaglia d’oro. *** In questo mio scritto ci saranno tanti sbagli di ortografia e di componimento ma posso giurare che è tutta verità come mi è stato raccontato».